Esperienze al buio.
Nell’accezione comune, andare ad una cena al buio significa avere un appuntamento, più o meno galante, con una persona sconosciuta: un fatto non molto raro in una società con una marcata presenza di single.
Ma le cene al buio delle quali i mass media si sono recentemente occupati, non si riferiscono tanto a tale pratica, quanto, piuttosto, nel senso letterale del termine, a mangiare in un luogo completamente privo di luce.
L’idea tende ad essere presentata alla stregua di uno dei vari fad stagionali. Ma si tratta veramente soltanto di ciò oppure il fenomeno sottende una realtà meno effimera ed occasionale? Per rispondere al quesito è necessario che il fatto venga opportunamente contestualizzato.
In primo luogo esso si inserisce in un filone di iniziative che hanno già riscosso un ragguardevole successo nel recente passato.
Immediato è il collegamento con un altro evento che, per circa quattro mesi (tra il 16 ottobre 2002 ed il 16 febbraio 2003), è riuscito a catalizzare ininterrottamente l’attenzione di vari milanesi e turisti sul Palazzo Reale con l’allestimento della mostra “Dialogo nel buio” (Cattaneo, 2003). Si è trattato di un curioso, fruttuoso quanto fortunato esempio di inversione dei ruoli: per la prima volta, invece di essere in balia e dipendenti dagli altri, alcuni non-vedenti si sono prestati a fungere da guide per chiunque desiderasse provare a mettere tra parentesi lo strapotere della vista, per compiere un percorso al buio. “Dialogo”, dunque perché era solo la voce della guida a fornire indicazioni e consigli ma anche perché si dava la parola agli aspetti sonori, olfattivi, cinestesici, prossemici... dell’esperienza.
Il maggiore straniamento registrato tra i partecipanti era dovuto oltre che all’impossibilità di incedere ed orientarsi nelle tenebre, all’amarezza o allo spiazzamento di fronte ad una così rudimentale capacità di servirsi degli altri sensi persino in una situazione tanto semplice quale la visita di una mostra.
Pertanto, il pubblico si è immerso in una situazione, oltre che insolita, profondamente e-ducativa in quanto ha potuto, almeno in parte, guardare la realtà in modo diverso: non con gli occhi ma con il tatto, l’olfatto, l’udito.
In una simile prospettiva si può iniziare a riflettere e, quindi, a comprendere, i motivi del rilievo che vanno assumendo le iniziative “al buio”.
Abbiamo cinque sensi ma tendiamo ad usarne appieno solo uno: la vista.
L’attuale, costante pervasivo diffondersi di istanze olistiche rende facilmente ragione di una certa insofferenza nei confronti della sovrassaturazione di stimolazioni visive e del parallelo incremento di tentativi di esplorare il mondo ricorrendo ed incentivando la riscoperta, la rivalutazione, lo sviluppo delle altre dimensioni sensoriali, non di rado intese in termini sinestesici.
Una considerevole spinta in tale direzione è fornita dall’inedito compito attribuito all’esperienza, delegata a formare l’individualità fluida e flessibile dell’uomo postmoderno, sempre in cerca di novità, di mettersi alla prova, di costruire se stesso come un’opera d’arte, sull’esempio di Oscar Wilde e del suo celeberrimo personaggio Dorian Gray.
Ritornando sia alla visita sia alla cena al buio, va poi precisato che entrambe le proposte si radicano nel contesto dell’Unione Italiana Ciechi, di conseguenza potrebbe sorgere il sospetto che, nella migliore delle ipotesi, l’effetto non sia altro fuorché una mera operazione di sensibilizzazione nei confronti di chi ha un simile problema. Una finalità assolutamente nobile e degna di ammirazione ma che, in vero, non riesce a render pienamente ragione dell’inaspettato riscontro ottenuto.
Per capirlo bisogna invece addentrarsi nell’affascinante e complesso campo dei trend sociali di lungo periodo e, in particolare, nelle particolari correnti dell’edonismo, del polisensualismo, dell’estetizzazione, della ricerca di benessere e della rivalutazione del corpo in chiave olistica (Fabris, 2003).
Quindi una cena al buio diviene un’esperienza singolare, che consente di concentrarsi maggiormente non solo sul gusto o, al massimo, sull’olfatto, ma anche sul tatto e l’udito, componenti spesso passate in secondo piano quando si pensa ad una cena.
L’innegabile contributo dell’appetite appeal nella scelta dei prodotti alimentari, è ampiamente enfatizzato dai processi di estetizzazione che, oltre a pervadere e trasformare l’esistenza e l’identità personali e collettive, la città, la moda ed il design, sono giunti ad intaccare il comparto alimentare.
Il caso della nouvelle cuisine è forse stato il primo e più eclatante volano per la diffusione di un’inedita attenzione all’aspetto, alla presentazione del cibo ormai divenuto un pre-requisito dal quale il consumatore a stento è disposto a prescindere. Quindi parrebbe paradossale o, quanto meno, destinata ad avere scarso riscontro l’idea di una cena al buio.
Come nel percorso al buio, a renderla ancora più improponibile è l’atavica diffidenza nei confronti del dovere chiudere gli occhi che, per i vedenti, implica una totale fiducia ed abbandono nelle mani degli altri.
In una società sospettosa che Bauman (1999), Giddens (1990), Beck (1986) non esitano a definire del rischio o del pericolo, del pericolo, dell’incertezza, nella migliore delle ipotesi, la richiesta di chiudere gli occhi viene accolta con atteggiamenti di ritrosia, di disagio o sospetto.
In una serie di studi iniziati con una ricerca[1] commissionata dall’Unione Nazionale Industria Conciaria per capire gli effetti delle diverse lavorazioni e tipologie di pellame sul tatto e l’olfatto, uno dei fattori più disturbanti dei quali si è dovuto tenere conto era proprio dato dalla vista e dalla vasta gamma di pre-concetti evocati. Con il medesimo problema è riscontato da chi esegue i blind test sui prodotti che è contemporaneamente ben conscio da un lato del consistente influsso a-prioristico e pre-giudiziale esercitato dalla vista sulle opinioni e i pensieri non meno che sulle percezioni ed il significato loro attribuito e, quindi, sulle corrispondenti reazioni. Dall’altro è noto che, impedendo l’esercizio della funzione visiva, è più semplice concentrarsi sugli altri sensi riuscendo così ad apprezzarne in modo più pieno ed approfondito la portata esperienziale e a promuovere l’insorgere di cortocircuiti sinestesici.
I risultati di venti interviste focalizzate condotte in Lombardia[2], confermando tutte le precedenti osservazioni, forniscono un ulteriore contributo al fine di dipanare la profonda ambivalenza dell’idea di una cena al buio. Tra i motivi più ricorrenti che giocano in suo sfavore sono segnalati il disagio di trovarsi in un ambiente sconosciuto, di essere circondati da persone ignote ed il conseguente senso di impotenza, di non difesa, di paura per eventuali nemici o pericoli rispetto ai quali si ritiene di non avere nessun tipo di tutela.
Ricorrente è anche la reticenza nei confronti di quanto viene servito: i dubbi sorgono quando si prova una certa una certa sfiducia nei confronti dei gestori dei ristornati. Si accentua poi qualora il menu non spieghi in modo dettagliato l’offerta. Un ultimo ostacolo concerne le modalità della fruizione del cibo: “come faccio a mangiare se non vedo il piatto, se non so dove sono le posate e il cibo?”
Riuscendo ad ovviare a tali remore (l’opzione più frequentemente suggerita è l’esperienza casalinga) ed allo scetticismo iniziale, le reazioni degli intervistati sono perlopiù positive o molto positive. Comune è la scoperta di un multiverso di sensazioni gustative, olfattive ma anche tattili ed auditive capaci di colorare con inedite sfumature sinestesiche il gesto del mangiare contribuendo così, tra l’altro, alla bonificazione delle valenze peccaminose o socialmente deplorevoli che, in alcune circostanze, gli venivano attribuite.
Le parole del campione di persone analizzate evidenziano poi l’estrema difficoltà a verbalizzare percezioni, sensazioni, emozioni e stati d’animo. Un limite che rende ancora più complessa l’esplorazione e l’argomentazione del tema dimostrando la pressante esigenza dello sviluppo di una terminologia e di una serie di concetti, non semplicemente mutuati da altri contesti, ma appropriati. Probabilmente il segreto del successo di cene ed analoghe iniziative al “buio” consiste proprio nell’essere in fine tuning con il corrente Zeitgeist. Dunque, non un mero fad passeggero, ma un fenomeno di estrema attualità culturale al quale andrebbe guardato non solo con gli occhi ma con tutti i sensi, e per il quale andrebbe incentivato l’emergente filone di studi di sociologia, di comunicazione, di filosofia, di marketing.
Cenni bibliografici.
Bauman Z. (1999). La società dell’incetezza. Bologna: Il Mulino.
Beck U. (2000). La società del rischio. Verso una seconda modernità. Roma: Carocci. (ediz. orig. 1986)
Cattaneo A. (2003). A polysensitive method for qualitative research, paper presentato a VI European Conference of Sociology, ESA Congress, Murcia (Spagna), 23-26 September 2003, Session “Qualitative Methods”, 25-09-03.
Cattaneo A. (2003). “La società sensibile: tra postmodernismo e polisensorialità”, in Ferraresi M. (a cura di). La società del tempo libero. Milano: Arcipelago Edizioni, 2003.
Fabris G. (2003). Il nuovo consumatore verso il postmoderno. Milano: Angeli.
Giddens A. (1994). Le conseguenze della modernità. Fiducia, rischio, sicurezza e pericolo. Bologna: il Mulino. (ediz. orig. 1990)
[1] Ricerca Valore e valori della pelle commissionata dall’Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC) nel maggio 2002.
Altri dati in merito di tale lavoro sono stati presentati nel paper di Canntaneo Ada, A polysensitive method for qualitative research, alla VI European Conference of Sociology, ESA Congress, Murcia (Spagna), 23-26 September 2003, Session “Qualitative Methods”, 25-09-03.
[2] Lo studio è stato eseguito da Ada Cattaneo su un campione di 20 soggetti in Lombardia tra il 2 ed il 10 novembre 2005.